1. Sulla comunicazione. Atto della designazione linguistica. Segno e significato. Atti linguistici.

Che cos'è la comunicazione? Secondo Dell Hymes al cui nome è legato un indirizzo nuovo di ricerca, introduce nella linguistica il concetto di etnografia della comunicazione, lo studio degli eventi comunicativi. L'evento comunicativo è una situazione comunicativa di qualsiasi tipo in cui i partecipanti della situazione interagiscano tra di loro con passaggio d'informazione: sono quindi eventi comunicativi le conversazioni, le lettere, gli spettacoli, la preghiera, ma - aggiungeremmo - va considerato evento comunicativo persino un bacio scoccato nell'aria verso una ragazza da parte dal suo fidanzato, e così via (cfr.: Berruto - Berretta 1990: 41).Tutti questi eventi avvengono in un contesto sociale che comunemente chiamiamo comunicazione umana.

Secondo Il Grande Dizionario Garzanti la comunicazione nella linguistica è "trasmissione di informazioni mediante messaggi da un emittente a un ricevente | - non verbale, ottenuta mediante gesti e azioni, senza far ricorso alle parole, o in concomitanza e in aggiunta a queste" (Garzanti 1987: 425). Nel Piccolo Dizionario di Concetti Linguistici (NYELVI FOGALMAK KISSZÓTÁRA) del linguista ungherese Gábor Tolcsvai Nagy troviamo la seguente definizione del termine: "in senso generico è scambio di informazioni tra gli esseri animati mediante i segni, con senso più ristretto, contatto tra gli uomini o scambio di informazioni di vario genere tra loro per mezzo dei segni. La comunicazione è anche lo scambio d'informazioni tra le macchine atte all'elaborazione dei dati. Le forme non linguistiche della comunicazione umana sono, per es. la gesticolazione (movimenti delle mani, cambi del portamento) e la mimica (atteggiamenti del volto)" (Tolcsvai Nagy 2000: 129-130; traduzione nostra: L.T.).

Nella vita umana la lingua, il linguaggio umano hanno un ruolo determinante. Le ricerche italiane moderne di sociolinguistica, in un certo senso rinunciando ai principi della linguistica strutturale - la quale pone in primo piano la struttura come tale della lingua - sottolineano gli aspetti sociali del linguaggio, considerando la lingua come parte inalienabile della società, in cui essa (la lingua) viene inserita nella sua multiforme globalità. "[..] non c'è attività e rapporto sociale di una certa importanza - cosí Berruto e Berretta - che non si basi almeno in qualche misura sull'impiego della lingua come parte integrante del suo attuarsi. Usiamo la lingua lavorando, facendo l'amore, giocando; usiamo la lingua per fare la spesa, per incitare la nostra squadra, per rimproverare nostro figlio, per ringraziare l'amico; usiamo la lingua per tutto"

(Berruto - Berretta op.cit.: 27).

Parlando ci serviamo della lingua, esprimiamo con essa i nostri sentimenti, ci mettiamo in contatto con gli altri, acquistiamo cognizioni, trasmettiamo informazioni ai nostri interlocutori, richiamiamo l'attenzione degli altri sui diversi oggetti, fenomeni, fatti della realtà. Facciamo tutto questo nell'ambito della comunicazione e - in gran parte - grazie alla potenza del linguaggio umano con il quale, contrariamente agli altri linguaggi (linguaggio degli animali, linguaggi artificiali), si può esprimere, praticamente, tutto che appare nella coscienza dell'individuo, sia come uno stimolo fisico (Ho fame.) sia come quello psichico -sentimentale (Ti amo.) (cfr.: Dardano 1991: 7-8).

L'atto della designazione linguistica (termine del linguista ungherese László Antal) prende radice, si attua nella comunicazione. Antal nel descrivere l'atto della designazione linguistica distingue i fattori che sono indispensabili per la designazione linguistica, fattori con la mancanza dei quali la designazione non può essere attuata. La concezione di Antal si basa sui criteri seguenti.

La designazione linguistica prevede innanzi tutto due persone: un parlante (emittente o locutore) e un ascoltatore (ricevente o interlocutore). (Il parlante non deve essere presente necessariamente, per es. egli non è presente quando leggiamo un libro.) La comunicazione tra queste due persone non può essere effettuata direttamente, ma soltanto mediatamente, mediante segni oggettivi e fisici. L'atto della designazione linguistica è sempre incentrato su una certa mèta. Quel segmento, aspetto della realtà cui il segno si riferisce, sarà il referente o denotato del segno. Tanto per fare un esempio, se il parlante vuole richiamare l'attenzione dell'interlocutore su una "tavola" concreta, il segno sarà la catena dei fonemi che costituiscono il segno "tavola" (il significante), la tavola reale invece sarà il referente (denotato) di questo segno. Secondo Antal il processo della designazione non sarà comprensibile solo sulla base dei quattro fattori menzionati sopra (parlante, ascoltatore, segno, denotato), e non può essere neanche realizzato con la partecipazione di questi soli fattori. La spiegazione è semplice, infatti, tra il segno (catena di fonemi che designano la tavola) e il denotato (nel nostro caso : la tavola "reale") non sussiste nessun rapporto.

Dobbiamo quindi assumere un fattore in più, in base al quale il segno viene applicato per stabilire rapporto tra esso e il suo denotato. Secondo Antal la regola che prescrive le modalità d'uso dei segni, stabilisce le possibilità della loro applicazione, è il significato. Quindi, il significato in un tale assetto non è altro che la regola d'applicazione del segno (cfr.: Antal 1978: 45). Lo studioso stesso ritiene importante distinguere ­- tra i fattori indispensabili per realizzare la designazione linguistica - fattori linguistici e quelli che non rientrano nel sistema linguistico. Il parlante e l'ascoltatore, benché ambedue usino la lingua, non appartengono al sistema della lingua. Quanto ai referenti (oggetti), i segni si riferiscono ad essi, ma gli oggetti non sono identici né ai segni, né ai significati. La lingua deve tener conto soltanto del segno e il significato. Gli altri fattori quindi, come parlante, ascoltatore, denotato vanno considerati elementi extralinguistici della designazione linguistica (ibid.: 45-46).

Antal a questo punto fa un'osservazione particolarmente importante. Secondo lui il significato non fa parte del segno linguistico, il significato è il presupposto (condizione preliminare) del segno linguistico. Con questa distinzione Antal riesce a differenziare due concetti fondamentali i quali pur essendo inseparabili, ricoprono due entità diverse: il segno come unità oggettiva e fisica e il sigificato come regola e a sua volta, astratta (ibid).

Una volta toccata la questione di significato, non possiamo non ricordare il fatto che la concezione Antaliana differisce dalla concezione "tradizionale" di significato. Il professor Dardano scrive: "Ciascun segno linguistico possiede due facce: il complesso di suoni linguistici che lo compongono, e il concetto che esso esprime; a queste due facce del segno linguistico si dà il nome rispettivamente di significante e di significato". Sulla base della frase-campione Carlo cantava una bella canzone "il significato può essere descritto come segue: c'è una persona di nome Carlo; questa persona compie ora una determinata attività; tale attività consiste nel cantare una canzone; questa canzone è bella" (Dardano 1991: 10-11).

Dardano più in avanti a proposito del triangolo di Ogden e Richards distingue forse più chiaramente i termini significante, significato, referente dicendo che il significato "è appunto la nozione che a noi perviene del referente (sia esso reale o immaginario) attraverso la cultura e l'ideologia del nostro tempo" (ibid.: 51). La concezione qui descritta a proposito del significato è presente anche nei manuali scolastici italiani: "In ogni «segno» c'è un'entità materiale, o significante (nel semaforo la luce rossa o verde; in albero il suono di questa parola oppure, nello scritto, la sua forma grafica), e un significato, che è ciò che questi elementi materiali significano (nel semaforo alt o via libera; in albero appunto «l'albero»)" (Stoppelli 1990: 421-422).

Che cosa avviene quando comunichiamo qualcosa a un nostro interlocutore? M. Dardano distingue nel suo Manuale di linguistica italiana tre operazioni che noi eseguiamo mentre parliamo a chi riceve il nostro messaggio: "1. troviamo un contenuto cercando di chiarirlo almeno a noi stessi; 2. troviamo l'espressione che è capace di comunicare tale contenuto; 3. dopo aver trovato l'espressione con la quale manifestare tale contenuto, eseguiamo un controllo per verificare se l'espressione scelta è capace di comunicare in modo adeguato il contenuto" (Dardano op. cit.: 8).

Quando il parlante o l'emittente al contenuto - che vuole trasmettere all'interlocutore o il ricevente - attribuisce un codice (espressione linguistica) compie un'operazione di codificazione.

Che cos'è il codice? Nella linguistica generale il codice è definito come sistema coerente di segni. I segni, nella loro maggioranza, in base alle loro specie, al modo in cui essi designano cose e concetti del mondo esterno, e, a seconda di luogo e tipo del loro impiego, stanno in rapporto tra loro e costituiscono un sistema, chiamato codice (cfr.: Tolcsvai Nagy 2000: 127). In un'altra approssimazione, il codice è costituito dai segni arbitrari combinati con altri segni dello stesso tipo (cfr.: Dardano op. cit.: 6). Per esempio, i segnali stradali costituiscono un codice che l'autista deve conoscere affinché possa partecipare al traffico stradale, quindi deve conoscere il significato delle luci del semaforo, deve essere in grado di distinguere i diversi segnali manuali del poliziotto quando si intima un alt e quando uno svoltare a destra, ecc. I segnali stradali si somigliano secondo determinate regole (sono visualizzati con effetto di un'immagine, gli elementi pertinenti più importanti dei segnali stradali sono il disegno, la forma del fondo che comprende il disegno e il colore) e, allo stesso tempo, si dissomigliano l'uno dall'altro (i diversi fondi comprendono segni di vario tipo, lo stesso fondo può contenere più disegni differenti, per es. un disegno semplice collocato nel circolo indica il divieto di sosta, di fermarsi, o il senso vietato (cfr.: Tolcsvai Nagy op. cit.:127.).

La lingua è il codice più complesso nel quale i segni (morfemi, parole, sintagmi, frasi) mostrano determinate somiglianze tra loro (sono composti di serie di fonemi, possiedono un determinato significato), ma da un altro aspetto (presso le caratteristiche comuni) anche differiscono gli uni dagli altri (ibid.).

Com'è noto, la semiologia come studio dei segni distingue i segni naturali da quelli artificiali. I segni naturali sono in un rapporto di effetto rispetto alla causa con i loro referenti o denotati: per esempio, una colonna di fumo indica un incendio, la tachicardia (battito accelerato del cuore) può essere segno della febbre alta, oppure il rossore del volto può indicare la pressione alta. I segni artificiali stanno in un rapporto convenzionale con i loro rispettivi referenti, perciò sono arbitrari (devono essere imparati) come lo è - secondo Antal - tutto il sistema linguistico (cfr.: Antal 1985: 6-17). Per indicare, per esempio, i diversi fonemi o suoni, le diverse lingue del mondo utilizzano grafemi differenti nell'alfabeto, e vale lo stesso anche per il lessico: con la parola ungherese fa non si fa distinzione fra l'albero e la legna; in russo con la parola ljubov' vengono indicati sia l'amore (rapporto emozionale tra innamorati) che l'affetto (filiale, fraterno) i quali in ungherese, similmente all'italiano, si differenziano in szerelem e szeretet. Solo per curiosità riteniamo opportuno osservare tra parentesi che l'arbitrarietà della designazione linguistica può a volte creare situazioni linguistiche particolari, soprattutto per i traduttori, che qualche volta possono trovarsi - appunto in seguito a una tale arbitrarietà - di fronte a compiti, a prima vista difficili da risolvere. Una frase ungherese come A szerelem elmúlik,a szeretet megmarad è traducibile in italiano senza alcuna difficoltà. Tradurre la stessa frase in russo - in cui per i termini szerelem (l'amore) e szeretet (l'affetto) si ha a disposizione lo stesso lessema ljubov' - anche se non impossibile, ma è comunque, più complicato (cfr.: Papp 1979: 108).

Dunque dopo che l'emittente del messaggio compie la codificazione ("materializza" esteriorizzando, per così dire, il suo contenuto di pensiero mediante la lingua, riempie il pensiero di mezzi morfofonematici) l'interlocutore (ricevente) deve eseguire un'operazione inversa detta decodificazione, deve cioè decodificare il messaggio ricevuto in codice, cioè deve passare dall'espressione linguistica al contenuto di pensiero, in altri termini, deve "interiorizzare" mentalmente, al livello della coscienza ciò che si è detto in precedenza da parte dell'emittente (cfr.: Dardano op. cit.: 8).

Oltre ad emittente, ricevente, codice e messaggio nella comunicazione un elemento indispensabile, è il cosiddetto canale. Il canale è quel mezzo extralinguistico attraverso il quale si trasmette il messaggio (l'aria, la linea telefonica, le onde della luce, ecc.). Facciamo un breve esempio. Quando il professore della letteratura nell'ambito di un corso universitario parla di una poesia di Ungaretti, svolge il ruolo comunicativo di emittente (parlante, locutore), gli studenti che lo ascoltano saranno il ricevente (ascoltatore, interlocutore), il messaggio è l'analisi della poesia di Ungaretti, il canale è l'aria (con la vibrazione della quale si propongono i suoni come stimoli fisici) che porta agli orecchi degli studenti la voce del professore, e infine, il codice sarà, nel nostro caso, la lingua italiana.

Ora facciamo un altro esempio. Come sappiamo, accanto al linguaggio verbale l'uomo possiede anche linguaggi non verbali. Possiamo comunicare con i gesti, con la tonalità della voce, con il pianto, con lo sguardo, con il colore di un vestito, di una cravatta, e possiamo comunicare anche con la musica, con un'opera d'arte, dunque anche con una grafica. In questo caso l'emittente sarà ovviamente il pittore ("il creatore dell'opera"), il ricevente saremo noi (gli spettatori), il canale saranno probabilmente le onde della luce che servono a garantire la percezione visuale del "contenuto" del messaggio artistico (trasmettono un messaggio visuale). Il messaggio è quello che l'emittente - nel nostro caso, il pittore - vuole comunicare con la sua opera. A questo punto volens nolens sorge una domanda che ci fa riflettere un po' sul rapporto che intercorre tra l'evento comunicativo e la sua riuscita, felicità. La domanda è questa: se la comunicazione presuppone la conoscenza del codice comune (che è nel nostro caso la grafica) sia da parte dell'emittente che da quella del ricevente, un profano che non conosce il "linguaggio" specifico di questo ramo dell'arte, come può valutare, apprezzare il risultato? Lasciando aperta la risposta, procediamo su un argomento non meno importante e interessante: parleremo della riuscita, o meglio, delle condizioni di riuscita dell'atto comunicativo.

Per poter codificare in una certa lingua e decodificare da una certa lingua, i partecipanti all'atto o situazione comunicativa devono conoscere il codice comune, cioè la lingua in cui la comunicazione avviene. I partecipanti devono quindi conoscere il sistema di segni del codice, le regole grammaticali della lingua data, rispettare tali regole affinché siano in grado di costruire frasi semplici o complesse grammaticalmente corrette con le quali si scambiano le informazioni. Lo strutturalismo linguistico che - ­com'è noto - domina il campo della linguistica tra il 1920 e il 1950, mette in risalto il carattere sistemico della lingua come la struttura, e pone in primo piano i rapporti nel cui insieme i fenomeni della lingua possono e devono essere meglio analizzati. Questo indirizzo linguistico (i cui principi vigono ancora oggi anche al livello dell'insegnamento scolastico e universitario) considera la lingua come sistema dei sistemi tra loro collegati che sono: sistema fonologico (area dei fonemi, unità minime della lingua senza significato, elementi costitutivi dei morfemi, marcati da determinati tratti distintivi che - secondo la concezione tradizionale - hanno una funzione distintiva in quanto servono a distinguere il significato delle parole), sistema morfologico (area dei morfemi, unità minime che possiedono significato grammaticale o lessicale; sono segni veri e propri) e sistema lessicale (costituito dai lessemi come unità del lessico o forme di parole con le quali i lessemi appaiono nel dizionario).

Secondo la concezione strutturalista i segni linguistici si definiscono per le differenze e i rapporti che intercorrono tra di loro e possono essere analizzati secondo una dimensione "orizzontale" o sintagmatica (dal greco sỳntagma ‘composizione'), per la quale i segni nella frase sono in rapporto con gli altri segni vicini), e una dimensione "verticale", paradigmatica (dal greco parádeigma 'esempio, modello‘) o associativa che tiene conto dei rapporti tra i segni della frase e i segni che teoricamente potrebbero occupare il loro posto, per esempio: in Piero legge un romanzo i rapporti sintagmatici si stabiliscono tra i costituenti Piero (SN) e legge un romanzo (SV), poi tra legge (V) e un romanzo (SN'), rapporto predicativo e rapporto oggettivo; nella stessa frase secondo la dimensione paradigmatica si hanno diverse possibilità: Piero legge un romanzo / questo romanzo / il romanzo, oppure Il ragazzo / il mio amico / lui legge il romanzo, ecc. (cfr.: Dardano op. cit.: 11-16; Sensini 1990: 5-6).

La sociolinguistica che - secondo gli specialisti ­- è nata appunto dalla crisi dello strutturalismo accusa gli strutturalisti dell'analizzare la lingua come sistema astratto, "lasciando da parte tutto ciò che riguarda l'uso che il parlante, ogni persona, e la società, le comunità di parlanti, fanno del linguaggio, escludendo cioè in modo programmatico e rigoroso ogni considerazione degli aspetti psicologici individuali e sociali del linguaggio. [..] lo strutturalismo ignorava il problema della varietà della lingua, così come ignorava il problema dell'uso della lingua " (Berruto - Berretta op. cit.: 37-38). La sociolinguistica mettendo in risalto lo studio dei rapporti tra lingua e società considera la lingua "in quanto calata nelle concrete esigenze comunicative di una comunità sociale" e vede nella lingua "non solo strumento di comunicazione e di espressione, ma anche uno strumento d'azione", in altri termini, in questa nuova concezione la lingua è vista come un modo di agire (cfr.: ibid.: 24-25).

Che cos'è la lingua come modo d'agire? Se per lo strutturalismo linguistico il sistema astratto della lingua diviene la questione sostanziale nell'analisi linguistica, gli specialisti di linguistica pragmatica (nata in Germania negli anni Settanta) s'interessano dei rapporti tra le espressioni linguistiche (frasi, frammenti testuali) e le situazioni in cui avviene la comunicazione. La pragmatica differisce dalla grammatica e anche dalla semantica in quanto, mentre la grammatica si propone di analizzare la struttura delle frasi come unità linguistiche, la semantica descrive il significato delle frasi non considerando la situazione comunicativa e il contesto, la pragmatica invece affronta il significato delle frasi in rapporto alla situazione comunicativa e il contesto. Per esempio, una frase come fa freddo può significare ‘la temperatura è bassa'; in una situazione in cui i partecipanti all'atto comunicativo sono, diciamo, in una stanza con le finestre aperte può trasmettere ‘fa freddo, quindi chiudi le finestre'. La stessa frase in un altro ambiente, quando gli "attanti" della situazione comunicativa si trovano in una stanza con le finestre chiuse in un giorno estivo, può significare ‘fa freddo, perciò apri la finestra affinché il caldo di fuori entri nella stanza'. Per il tramite del significato pragmatico (o comunicativo) che si evince dalla situazione comunicativa, si può compiere un atto linguistico. Grazie al doppio significato pragmatico della frase fa freddo, con essa si può esprimere un invito: apri o chiudi le finestre (cfr.: Tolcsvai Nagy op. cit.: 205).

Oggetto dell'analisi di questo indirizzo linguistico sono dunque le modalità dell'interazione comunicativa e le condizioni della "felicità" degli atti linguistici, sulla breve analisi delle quali ci soffermeremo nei paragrafi successivi.

Che cos'è un atto linguistico?

Prima di procedere all'esame più dettagliato della questione, riteniamo non sia fuori luogo fare una breve digressione per quanto riguarda il termine atto linguistico: proporremmo sostituirlo con il termine atto di parola il quale - a nostro parere - è più adatto a trasmettere il contenuto vero e proprio del fenomeno in questione (anche se per amor di tradizione noi in questa sede rispetteremo il termine accettato dalla linguistica italiana di oggi).

"Gli atti linguistici sono forme comunicative che mirano a rivelare le intenzioni del parlante ed in molti casi a provocare specifiche reazioni negli interlocutori. L'atto linguistico, infatti, comporta ed esige spesso un'azione dell'interlocutore. Si può dire, dunque, che si compone di due fasi: l'atto illocutorio e l'atto perlocutorio" (Lo Cascio 1991: 62).

L'atto linguistico (ingl. speech act) "è l'unità di base della descrizione linguistico - pragmatica che studia l'uso della lingua in situazione. Atti linguistici sono ad es. una constatazione, una richiesta, un consiglio, una promessa, un ringraziamento" (Beccaria 1989: 100).

Il filosofo britannico J. L. Austin (1911-1960) fu il primo da richiamare l'attenzione sulla molteplicità delle funzioni che gli enunciati, le espressioni linguistiche possono svolgere nell'interazione comunicativa. Egli dimostrò che con numerosi enunciati non si trasmette l'informazione, non si descrive l'azione, ma si compie, cioè tali enunciati hanno statuto di azione. Se io dico "chiedo scusa"; "ti prometto di venire stasera"; "battezzo questa nave con il nome di...; "giuro di dire la verità"; "scommetto dieci euro che stasera piove" ecc., l'enunciato comporta una nuova realtà sociale; pronunciando queste frasi compio esplicitamente e simultaneamente delle azioni chiamate scuse, promessa, battesimo, giuramento, scommessa. Austin chiama questi enunciati performativi distinguendoli dai constativi che servono a trasmettere informazioni. I constativi come enunciati descrittivi sono veri o falsi, i performativi invece non possono essere soggetti a giudizi di verità / falsità; se io dico "Battezzo questa nave con il nome di..." , l'interlocutore non può dire: "Questo non è vero!" (cfr.: Dardano op. cit.: 29; Beccaria op. cit.: 100, 553-554; Crystal 2003: 160).

Quando si pronunciano tali enunciati, essi - oltre ad essere "grammaticali", sintatticamente e semanticamente corretti - devono essere corrispondenti a criteri di riuscita e di appropriatezza in relazione a una serie di norme di comportamento governato da regole sociali (oltreché linguistiche) proprie di una data comunità sociale. Gaetano Berruto, citando Joshua Fishman scrive: "L'uomo usa continuamente il linguaggio - lingua parlata, lingua scritta, lingua stampata - ed è costantemente collegato agli altri per mezzo di norme comuni di comportamento" (Berruto - Berretta op. cit.: 30). "Il comportamento sociale ­- scrive più avanti -, ciò che noi facciamo di percepibile interagendo con i nostri simili, è governato da norme, da regole comuni; e lo stesso vale naturalmente per il comportamento linguistico, ciò che facciamo usando la lingua e il modo in cui la usiamo" (ibid.: 31).

Abbiamo accennato sopra alle due fasi dell'atto linguistico distinte da Lo Cascio come fasi fondamentali. Sulla scorta di Austin lo statunitense John Searle parla di quattro componenti dell'atto linguistico (cfr.: Tolcsvai Nagy op. cit.: 38), ma generalmente è accettata la concezione secondo la quale l'atto linguistico è composto di tre fasi quanto alle reazioni provocate dall'atto linguistico nell'interlocutore. Nell'ambito quindi di una tale tricotomia strutturale dell'atto linguistico si distinguono: l'atto locutorio, l'atto illocutorio e l'atto perlocutorio. L'atto locutorio rappresenta il fatto puro del realizzarsi dell'azione comunicativa, consiste nel pronunciare l'enunciato, per esempio: Fa caldo oggi. L'atto illocutorio - che costituisce il componente principale della teoria degli atti linguistici - ­­­indica l'azione compiuta con l'enunciazione del parlante affinché egli possa ottenere una certa reazione nel suo interlocutore, e cioè consiste nell'agire dicendo qualcosa (per es. la promessa, la commessa,il battesimo, ecc.). "Per l'atto illocutorio si intende - così Mihály Péter - il lato intenzionale dell'azione linguistica, l'intenzione comunicata dal parlante" (Péter 1991: 132, in lingua ungherese; [trad. nostra: L. T.]). L'atto perlocutorio invece viene identificato con quell'effetto specifico che il parlante esercita con il suo enunciato sull'ascoltatore nel corso dell'atto stesso, l'effetto che può essere divertente, persuasivo, effetto di avviso, ecc. (cfr.: Crystal op. cit.: 160).

La "forza" illocutoria di un enunciato e il suo effetto perlocutorio non sempre coincidono; io posso chiedere a qualcuno di fare qualcosa, ed egli può soddisfare o anche rifiutare la mia domanda. Un atto linguistico può essere "felice" soltanto se è strutturato e pertinente, se la mia valutazione circa lo specifico destinatario risulta giusta e se il modo in cui io presento la domanda corrisponde non solo alle norme linguistiche, ma pure a quelle socioculturali della comunità sociale in cui l'interazione comunicativa avviene (cfr.: Lo Cascio op. cit.: 62-63).

Il professore di slavistica József Krékits nella sua monografia pubblicata in lingua russa nel 1989, sulle orme di Searle richiama l'attenzione sul fatto che alcuni linguisti confondono l'atto illocutorio con quello perlocutorio. "Gli equivoci - scrive Krékits - sono dovuti al fatto che alcuni linguisti nel termine «force» (effetto, influsso, forza) vedono soltanto un unico significato aspettuale. Il termine «effetto (influsso) (vozdejstvie)» come anche il verbo russo «vozdejstvovat' (‘influire' - L.T.)» ha due significati aspettuali: imperfettivo e perfettivo. Il primo riguarda le modalità o il grado, il secondo invece si riferisce alle conseguenze, al risultato dell'effetto, per es. mentre nel caso dell'atto illocutorio si parla delle modalità o del grado dell'effetto, nel caso dell'atto perlocutorio si evidenziano le conseguenze, il risultato dell'effetto esercitato con la forma imperativa (da parte del parlante) sull'ascoltatore (destinatario)" (Krékits 1989: 218; trad. nostra: L.T.).

A proposito dell'argomentazione di Krékits faremmo ora una piccola digressione che riguarda soprattutto gli enunciati imperativi. A nostro parere, per quello che riguarda la forza illocutiva (che potremmo chiamare motore della comunicazione) le situazioni comunicative si potrebbero differenziare in due tipi fondamentali secondo il "grado" della forza. La forza illocutoria, secondo la nostra concezione, è strettamente connessa con un certo rapporto di dipendenza che si instaura nel giro della comunicazione tra i due "attanti" dell'evento comunicativo: il parlante e l'ascoltatore. Supponiamo che - come nella linguistica moderna si distingue il cosiddetto "zero" (morfema-zero) - anche nella sfera della pragmatica possa figurare lo "zero"; quando per esempio, il rapporto di dipendenza menzionato sopra è annullato, il suo "grado" è uguale allo zero. Ora esponiamo a grandi linee la sostanza di questo fenomeno.

Il rapporto di dipendenza s'instaura tra i partecipanti della situazione imperativa, cioè tra il parlante (intimante) e il destinatario (intimato). Il rapporto di dipendenza non ha niente a che fare con parametri linguistici, esso tiene conto soltanto dei fattori (o "leggi") pragmatici (o etici), delle leggi, alle quali i partecipanti alla situazione imperativa devono attenersi (ad eccezione dei casi in cui il destinatario rifiuta di eseguire l'ordine o la domanda del parlante) affinché l'atto comunicativo raggiunga il suo scopo.

Il rapporto di dipendenza (potrebbe essere chiamato anche dipendenza pragmatica), quando esso non è uguale allo zero, può essere di due direzioni il cui punto di partenza può essere sia il parlante, che l'ascoltatore secondo la direzione del "vettore pragmatico". Nel caso della domanda o preghiera (e delle sue diverse sfumature illocutorie) il parlante (o l'intimante) "dipende" dall'interlocutore (o l'intimato), nel senso che dal carattere etico - sociale della preghiera segue che essa può anche non essere eseguita da parte dell'ascoltatore. (Altro discorso è, che l'ascoltatore in genere non rifiuta di eseguirla a meno che non si affaccino argomenti contrari da parte dell'ascoltatore che lo impediscano di soddisfare"normalmente" la domanda del parlante; per es., se io chiedo al mio interlocutore di percuotersi un dito col martello, è del tutto ovvio che la mia domanda non raggiunge il suo scopo; oppure posso chiedere a qualcuno di rubare la bicicletta al mio vicino, ma, è probabilissimo, che neanche questo mio atto illocutorio raggiunga il suo scopo.)

Nel caso in cui si da ordine o comando, la situazione pragmatica è un po' diversa da quella della preghiera. Quando si trasmette un ordine, la direzione del vettore pragmatico è inversa dal momento, che è l'ascoltatore che dipende "pragmaticamente" dal parlante; infatti, il carattere etico - sociale dell'ordine non rende possibile per chi lo riceve di scegliere tra le due possibilità: eseguire o no l'ordine. Un ordine, come tale, deve essere eseguito, visto che il parlante (che compie l'atto illocutivo dell'ordine) occupa una posizione, per così dire, "superiore" - per la convenzione sociale - rispetto all'ascoltatore, per quanto riguarda il suo ruolo etico - sociale che lo autorizza a comandare alla persona che nella data situazione è "socialmente" soggetta alla volontà del parlante. (In esercito, per esempio, un sergente deve eseguire, senza condizioni, l'ordine del maggiore che secondo il rango è superiore al sergente.)

Abbiamo accennato sopra allo "zero", quando manca il rapporto di dipendenza tra il parlante e l'ascoltatore nella situazione imperativa. In effetti, in queste situazioni non si comanda, non si chiede alcun atto che debba essere eseguito dall'ascoltatore, cioè anche la forza illocutoria con la quale il parlante influisce sull'ascoltatore è minimizzata, de facto è uguale allo zero, il che vuol dire che il destinatario cui il parlante rivolge la parola può agire a sua discrezione.

Dato, che in fondo non si tratta di preghiera né di ordine, l'azione al cui compiere l'ascoltatore è invitato dal parlante, si svolgerebbe, in primo luogo, a favore del destinatario, per il suo bene, senza alcun obbligo etico - sociale, che sia imposto al destinatario ad agire nel senso richiesto dal parlante (intimante): Venite a casa nostra, vi invitiamo a cena; Tenga pure il resto (l'ospite al cameriere nella trattoria)!; Non hai ancora il telefono? Attiva una nuova linea Infostrada
(http://www.libero.it/).

Siamo testimoni di una situazione analoga («zero - dipendenza» tra i partecipanti dell'atto comunicativo) nei dialoghi quando i ruoli "s'invertono" nell'interazione comunicativa imperativa nel senso che è il destinatario (il secondo parlante) che formalmente svolge il ruolo dell'intimante, usando la forma imperativa, anche se l'iniziatore dell'atto comunicativo è sempre il primo parlante, cfr.: (primo parlante:) - Posso/potrei chiudere la finestra? Fa freddo qui; (secondo parlante:) - Certamente, fai/faccia pure!

Come abbiamo detto sopra (pag. 7) i performativi indicano esplicitamente la funzione comunicativa dell'enunciazione, il tipo di atto linguistico. Oltre i performativi esistono altre forme (linguistiche ed extralinguistiche) che rivelano la qualità dell'atto che il parlante vuole compiere in una data situazione. La teoria degli atti linguistici distingue i cosiddetti atti linguistici diretti e quelli indiretti. La forma più diretta dell'atto linguistico è l'imperativo con l'uso del quale si dà un ordine a volte secco e categorico, motivato da un certo argomento (nel contesto che segue il sonno del parlante): spegni la TV, voglio dormire. Nei rapporti interpersonali quotidiani il più delle volte figurano atti linguistici indiretti che presentano l'intenzione del locutore in una forma meno categorica, più garbata e tengono conto anche del rapporto dell'interlocutore con l'azione, al compiere della quale egli viene invitato dal parlante (contano, per esempio la capacità e l'intenzione dell'interlocutore di agire) e le ragioni del parlante per invitare l'ascoltatore a compiere l' azione data, per es.: potresti spegnere la TV, per favore?- vorrei dormire; non è che mi faresti il favore di spegnere la TV?; scusa tanto, ma ti vorrei chiedere se potessi spegnere la TV; non vorresti spegnere la TV; non ti darebbe fastidio se io spegnessi la TV, ecc. (cfr.: Crystal op. cit.: 160).

In una situazione appropriata ognuno di questi enunciati può invitare ad agire pur non essendo morfosintatticamente forme imperative. Nel rilevare il tipo dell'atto svolgono un ruolo importante anche gli elementi soprasegmentali della frase (come l'intonazione e l'ordine delle parole, l'enfasi), la punteggiatura (punto esclamativo e interrogativo) nel testo, i verbi modali (dovere, potere, sapere, volere), avverbi e locuzioni avverbiali, le forme di tempi e i modi verbali, una costruzione negativa con un verbo modale, i gesti che accompagnano l'enunciazione. Tali elementi sono chiamati indicatori della forza dell'atto illocutorio o, semplicemente detti indicatori di forza, per es. :[chirurgo all'assistente:] Le pinze, presto! (ordine); Volevo un caffè (desiderio presente con un tono garbato di apparente rinuncia); Perché non studi? (un comando in forma indiretta di una domanda); Tu semplicemente non vuoi capirmi! (affermazione con una sfumatura di rimprovero); Non vuoi accompagnarmi a casa?

(domanda con la sfumatura di desiderio del locutore), ecc. (cfr.: Lo Cascio op. cit.: 63-64; Serianni 1988: 327).

A questo punto fra parentesi faremo una piccola osservazione in relazione alle costruzioni negative e alla loro funzione illocutiva. Mihály Péter scrive in proposito: "Nella forma negativa della domanda il valore illocutivo della preghiera è più forte che in quella affermativa: la forma negativa quasi "provoca con dolcezza" il destinatario ad esprimere con enfasi il suo consenso: Verresti con me? - Sì. Non verresti con me? - Ma sì! Come no! [..] Vuoi venire al cinema (domanda neutra), Non vuoi venire al cinema? (= "Vorrei se tu volessi venire con me al cinema")" ( Péter op. cit.: 158 [trad. nostra: L. T.] ; cfr. inoltre: Jászay - Tóth 1987: 168).

La teoria degli atti linguistici mette in risalto l'analisi della struttura di atti semplici, nella realtà però, gli atti semplici sono molto rari, essi nelle diverse situazioni compaiono insieme, come unità complesse oppure come somma di più atti linguistici: de facto abbiamo in tali casi a che fare con una certa sovrapposizione di diversi contenuti pragmatici i quali saldandosi tra loro costituiscono un'unità comunicativa pragmaticamente indivisibile (si può chiedere comandando e comandare scusandosi). Non è che mi faresti il favore di tradurmi questa lettera in italiano?; Dovresti tradurmi questa lettera in italiano, scusa sai!; Bisturi!, prego (chirurgo all'assistente in sala operatoria) (cfr.: Lo Cascio op. cit.: 62-65).

L'atto linguistico infine può essere espresso anche mediante un intero testo come unità linguistica che è solitamente composto di più frasi (ma si può comporre anche di una sola frase, anzi di una sola parola) e sta al di sopra della frase soprattutto non quantitativamente, ma qualitativamente, grazie alla sua coerenza contenutistica e coesione grammaticale garantite per mezzo di elementi connettivi grammaticali, semantici, comunicativi e strutturali. Il testo dunque può considerarsi un atto linguistico complesso, in cui si possono esprimere diversi contenuti pragmatici o atti comunicativi (affermazioni, negazioni, esitazioni, richieste, ecc.); (cfr.: ibid.: 64-65).

Uno di oggetti di studio principali della linguistica pragmatica, è il dialogo che può avere vari scopi: comunicazione, domanda, risposta, preghiera, saluto, ingiunzione, convincimento, esortazione, allusione, offesa, minaccia, ecc. (cfr.: Dardano op. cit.: 29). Il dialogo in genere presuppone la presenza di almeno due persone (locutore, interlocutore), ma nella realtà esso può avvenire con la partecipazione di una quantità indeterminata di parlanti e interlocutori. Nel dialogo lo scambio di informazioni può avere carattere unilaterale (quando il primo parlante è "attivo", il secondo parlante non fa altro che soltanto reagire alle battute del primo) e bilaterale quando entrambi i partecipanti alla comunicazione sono "attivi" e in questo senso i loro "ruoli" nella comunicazione sono uguali. I dialoghi sono caratterizzati dalla brevità degli enunciati, dalle costruzioni ellittiche, dal parallelismo strutturale delle battute, associate spesso agli elementi del "linguaggio del corpo" (gesti, mimica); (cfr.: Pete 1991: 401).

Erving Gofman, studioso americano delle interazioni sociali, nell'ambito di una breve conversazione presenta, come viene ristabilito l'equilibrio fra i due partecipanti alla conversazione, che per l'azione di uno dei due si era rotto. Si tratta di una "riparazione verbale da parte di un offensore di un atto che costituisce offesa al self di un interlocutore" (Berruto - Berretta op.cit.: 116). La breve conversazione è questa: - «Posso usare il suo telefono?» - «Certamente, faccia pure» - «È veramente gentile da parte sua» - «Non c'è di che» - Con la richiesta di usare il telefono dell'interlocutore, il parlante invade per così dire lo spazio vitale di esso (secondo parlante). Per riparare quest'offesa, il parlante si rivolge all'interlocutore chiedendogli il permesso (prima battuta). L'interlocutore con la risposta segnala che accoglie con gradimento la riparazione offerta dal parlante (con la prima battuta). Il gradimento obbliga il parlante (offensore) a ringraziare la segnalazione dell'equilibrio ristabilito con la battuta: - «È veramente gentile da parte sua». Lo "scambio riparatore" termina poi con l'ultima battuta dell'interlocutore: «Non c'è di che». "Le due mosse del primo parlante mirano a indurre nell'offeso la minimizzazione dell'offesa, le due mosse del secondo parlante mirano a confermare nell'offensore la sensazione che l'offesa è riparata" (ibid.: 117). L'attuazione dei due momenti essenziali dello scambio riparatore «Posso usare il suo telefono?» e, «Certamente, faccia pure» è una condizione necessaria e sufficiente affinché l'equilibrio sia ristabilito con la soddisfazione di ambedue i partecipanti della situazione comunicativa (ibid.).