2. Sulle categorie nella linguistica. Alcuni aspetti della cosiddetta categoria semantico - funzionale sul terreno linguistico italiano.

In questa parte si opera il tentativo di fornire la definizione e la descrizione di alcuni concetti fondamentali della linguistica che hanno importanza sia dal punto di vista linguistico -generale che dal punto di vista dei termini utilizzati nella linguistica italiana contemporanea.

Categorie grammaticali e quelle lessicali.

Con il termine categoria s'indica nell'uso comune "classe che raggruppa cose della medesima specie o persone che svolgono la stessa attività: - professionale; associazione di -; albergo di terza - | categorie grammaticali, classi in cui si ripartiscono gli elementi (parti) del discorso; le proprietà formali in base alle quali tali classi si compongono" (Garzanti op. cit.: 336).

Il punto di partenza quindi, per definire il termine categoria, deve essere il raggruppamento di elementi della medesima specie. Siccome in questa sede ci occuperemo di categorie linguistiche, in primo luogo focalizziamo l'attenzione sul concetto di categoria grammaticale. Nella linguistica esistono diverse interpretazioni, vari approcci a questo concetto. Per categorie grammaticali tradizionalmente si intendono le parti del discorso delle quali in italiano si distinguono nove: articolo, nome, aggettivo, pronome, verbo (che sono variabili, perché possono variare le desinenze), avverbio, preposizione, congiunzione, interiezione (che sono invariabili, dato che non variano di forma) (cfr.: Sensini op. cit.: 61).

István Pete - sulla scia di L. V. Ščerba, B. N. Golovin e N. S. Pospelov - definisce il concetto di categoria grammaticale (di cui si distinguono categorie morfologiche e quelle sintattiche) come unità bilaterale: unità dei significati grammaticali della medesima specie e dei mezzi della loro espressione (Pete 1975: 72; 1991a: 27 [ambedue in lingua russa]).

Fra parentesi, per amor di precisione, riteniamo opportuno osservare che il termine significato grammaticale qui è usato nella concezione - per così dire - "tradizionale" (come pure il termine significato nel senso generale): "è un rimando all'una o l'altra «classe generale», vale a dire, a determinate categorie grammaticali" (Maslov 1975: 111; [trad. nostra: L. T.]). Infatti, esiste una concezione che distingue nettamente il significato dal contenuto cui il segno si riferisce (è evidente da parte nostra che la distinzione vale anche per i segni grammaticali!). Questa concezione - di cui l'ungherese László Antal era uno dei rappresentanti - si basa sulla tesi secondo la quale il significato è la regola d'applicazione del segno ed esso va distinto dal contenuto che ha dimensioni denotative. In un tale assetto, per significati grammaticali dovremmo intendere i diversi contenuti (grammaticali) che sono veicolati con segni grammaticali aventi delle regole d'applicazione ben precise (cfr.: Antal 1978: 45).

L'unità ("omogeneità") della categoria grammaticale si fonda non sui mezzi della sua espressione, bensì su un significato grammaticale comune dal momento, che lo stesso significato grammaticale si può esprimere con mezzi diversi; per esempio, le diverse forme d'espressione della categoria morfologica del caso latino (nominativus, accusativus, genitivus, dativus, ablativus), si uniscono nella categoria del caso; i significati grammaticali temporali nell'italiano contemporaneo (passato, presente, futuro) costituiscono la categoria grammaticale del tempo, ecc. (cfr.: Pete 1975: 72-73). Che cosa intendiamo per il significato grammaticale comune nel caso della categoria grammaticale? Se, per esempio, la categoria del tempo grammaticale - come noi riteniamo - deve necessariamente comprendere tre membri (componenti): passato, presente e futuro, ne viene di conseguenza che questi membri o componenti (che d'altronde rappresentano a loro volta diversi significati grammaticali specifici) logicamente devono possedere un significato grammaticale, che è comune a tutti i singoli membri della categoria del tempo. Tale significato comune potrebbe essere chiamato comune denominatore semantico oppure, più semplicemente, invariante semantica dei significati grammaticali specifici della categoria di tempo, visto, che questa invariante semantica è propria di ciascun costituente della categoria stessa (passato, presente, futuro) e consiste nel collocare l'azione (l'evento o lo stato) in questione sull'asse temporale (nel caso del tempo deittico) rispetto al momento dell'enunciazione (ME).

All'interno della categoria grammaticale i membri che rappresentano i diversi significati grammaticali specifici formano paradigma (distribuzione "verticale" di elementi) in cui i membri stanno in opposizione (l'uno con l'altro). Le categorie grammaticali in genere sono caratterizzate da opposizioni binarie o doppie; per es., nel caso della categoria grammaticale del numero, propria dei sostantivi e dei verbi, il singolare (come significato grammaticale specifico) si oppone al plurale (come significato grammaticale specifico). Nello stesso modo, quanto alla categoria del genere, dalla quale sono marcati i sostantivi, il maschile costituisce opposizione con il femminile, e così via. Nel caso di una categoria composta di due soli membri (come nei nostri esempi precedenti) la "formula" è molto semplice, però esistono categorie grammaticali (come per es., il caso in latino o in russo) che si compongono di più di due costituenti. In questo caso de facto ognuno dei costituenti può essere opposto a tutti gli altri membri. Qualunque sia il numero degli elementi costitutivi della categoria, al livello superiore dell'astrazione si può giungere a un'opposizione "bipolare". Se prendiamo in esame, per esempio, la categoria di tempo linguistico, dobbiamo tener conto di tre costituenti opponibili: presente, passato e futuro. Questi tre elementi - come abbiamo visto prima - compongono la categoria grammaticale del tempo che chiameremo ora - con il termine della matematica - insieme.

Per ottenere dunque da questo insieme due insiemi (o «sottoinsiemi»), l'insieme "pri­mario" deve essere diviso in modo tale (visto, che non esiste altra possibilità) che in uno degli insiemi rimanga solo un elemento (membro), mentre nell'altro si presentino gli altri due. Tenendo presente la necessaria "logicità" della divisione, nel caso del tempo grammaticale nel primo insieme dobbiamo mettere il «presente» come uno dei mem­bri dell'opposizione bipolare, nel secondo, di conseguenza, saranno il «passato» e il «futuro».

Ora vediamo quale logica governa un tale ragionamento. Se consideriamo il cosiddetto tempo deittico o assoluto (prescindendo in questo caso dall'altro tipo di tempo, quello non deittico o relativo) in cui il momento di riferimento - com'è noto - è il momento dell'enunciazione, allora possiamo costatare che tra i tre elementi temporali (presente, futuro, passato) della categoria in questione, è il presente che sarà marcato dalla «coincidenza» del momento dell'avvenimento (MA) con il momento dell'enunciazione (ME). In altri termini, se il momento dell'avvenimento coincide con il momento dell'enunciazione o lo comprende, abbiamo a che fare con un evento presente (si tratta del contenuto del primo insieme). Se la costellazione è priva di una tale "coincidenza", parliamo o del futuro (in cui il momento dell'enunciazione precede il momento dell'avvenimento) o del passato (in cui il momento dell'enunciazione segue il momento dell'avvenimento); si tratta del contenuto o, per meglio dire, dei contenuti del secondo insieme); cioè, la «differenza specifica» alla cui base si manifesta la distinzione, consiste nella coinci­denza o meno del contenuto della forma data con il momento dell'enunciazione (cfr. in proposito: Maslov 1975: 159-160; Kiefer 1992: 803-804; Salvi -Vanelli 1992: 52).

Possiamo osservare una situazione analoga pure con le altre categorie morfologiche. Nel caso della «persona», ad esempio, la prima e la seconda persona nell'insieme pos­sono essere opposte alla terza, siccome gli elementi indicanti la persona (pronomi personali, desinenze verbali) "[..] grammaticalizzano il riferimento ai ruoli dei partecipanti all'atto comunicativo, cioè il parlante e l'ascoltatore" (Salvi - Vanelli 1992: 195), vale a dire, la prima e la seconda persona. La terza persona (che rappresenterebbe il secondo «insieme») differisce dunque dalle prime due in ciò che essa indica un ente che non partecipa alla comunicazione (cfr.: Pete 1975: 72-73; Tóth 2002: 40-49).

La tesi dello Strutturalismo - secondo la quale sono i «rapporti» che gover­nano l'apparato linguistico - garantisce un terreno fecondo per il manifestarsi pure delle designazioni complesse, come categorie o campi semantico - funzionali in cui vigono delle relazioni (rapporti reciproci) tra gli elementi costitutivi del complesso stesso (e non solo tra le parole).

Alexandr Vladimirovič Bondarko - che ha sviluppato la sua teoria sulle categorie semantico - funzionali in base alla concezione di O. Jespersen e I. I. Meščaninov - considera queste come categorie linguistiche aventi «contenuto linguistico e forma linguistica» (cfr.: Bondarko 1971: 8 [in lingua russa]; Dezső - Maszlov [a cura di] 1983: 283-288 [in lingua ungherese]). Il criterio fondamentale del manifestarsi della cate­goria o campo semantico - funzionale deve essere una comunanza parziale di funzioni semantiche degli elementi linguistici concorrenti, e cioè la presenza di un'invariante semantica nella presenza di tutte le diverse varianti. Per definire il nocciolo della cate­goria in questione Bondarko scrive: "La categoria semantico - funzionale rappresenta il sistema dei mezzi linguistici di vario genere, capaci di concorrere all'esercizio di determinate funzioni semantiche (per esempio, funzioni dell'espressione di rela­zioni temporali o modali)" (Bondarko op. cit.: 8; [trad. nostra: L.T.]).

Come abbiamo accennato sopra, l'attributo essenziale della categoria di cui si parla consiste nell'interdipendenza tra il contenuto semantico e la forma linguistica come quella portatrice del contenuto. Il contenuto semantico delle categorie semantico - funzionali è analogo alla semantica delle corrispondenti categorie morfologiche quali tempo, modo, ecc. (in base all'appartenenza alla stessa area semantica), mentre sul piano dell'espressione (formale) rientrano nel sistema i mezzi linguistici appartenenti a diversi livelli della lingua: morfologici, sintattici, lessicali e quelli che riguardano la for­mazione delle parole, ecc.

La categoria grammaticale (morfologica) va considerata, in un tale assetto, punto di partenza nella distinzione della categoria semantico - funzionale del genere. I due tipi di categoria appartengono alla stessa area linguistica. La differenza tra di loro - secondo l'autore citato prima - sta nel fatto che le categorie morfologiche rappresentano il livello morfologico della lingua, cioè quello della forma; le categorie semantico - funzionali invece abbracciano sfere linguistiche più ampie in cui rientrano oltre le categorie morfologiche pure gli altri elementi appartenenti ad altri livelli e lati della lingua che stanno in un rapporto reciproco con le categorie morfologiche ,e sono in connessione con esse grazie alla loro comunanza semantico - funzionale (cfr.: Bondarko op. cit.: 8-11).

Bondarko, nel suo lavoro citato sopra, si occupa delle categorie come quelle di temporalità, modalità, personalità, aspettualità, direzionalità ('categoria semantico - funzionale della diàtesi'). Partendo dalla nostra ipotesi che le categorie semantico - funzionali siano "universali" (nel senso che esse possono essere distinte in tutte le lingue in cui figurano le corrispondenti categorie morfologiche, sintattiche, lessicali, ecc.), sulla base teorica proposta da Bondarko ora opereremo il tentativo di abbozzare un campo semantico - funzionale italiano, il cui centro morfologico è rappresentato dalla categoria morfologica della diàtesi (altri termini usati: forma, voce, genere, direzione; cfr.: Sensini 1990: 224).

Monica Małecka in un suo studio analitico fornisce un quadro completo dell'interpretazione della diàtesi nelle grammatiche italiane del secolo scorso. La studiosa, risalendo a prima del Novecento, presenta uno sviluppo cronologico negli approcci della categoria qui in esame e sottolinea i diversi punti di gravitazione e dimensioni, attraverso i quali gli studiosi descrivono il fenomeno dato. Małecka giunge alla conclusione - tra l'altro - che la diàtesi "viene gradual­mente riconosciuta come una categoria grammaticale o comunque una delle prin­cipali proprietà del verbo" realizzatasi nell'opposizione «attivo ↔ passivo» sul piano morfosintattico e esprime relazioni tra soggetto, predicato e oggetto. La studiosa mette in risalto l'importanza del fattore semantico della questione legato all'agentività o meno del soggetto, tocca il problema dei verbi riflessivi e si sofferma anche sulla transitività / intransitività strettamente legata alla diàtesi (Małecka 1999:61).

La diàtesi è definita nel Dizionario di linguistica di Beccaria come «cate­goria del verbo che esprime l'atteggiamento, la «disposizione» dei partecipanti all'azione nei confronti dell'azione stessa» (Beccaria 1996: 224). Ju. S. Maslov prende in considerazione criteri sintattici e semantici complessivamente, scrivendo: "La categoria della diàtesi esprime nelle forme del verbo i diversi tipi delle relazioni tra i membri della frase (soggetto, complementi) ed i «partecipanti» reali della situazione descritta nella frase - tra «l'agente» cioè la persona reale che compie l'azione e «il paziente» cioè il primo oggetto (a volte anche gli oggetti successivi) dell'azione" (Maslov op.cit.: 211; [trad. nostra L. T.]).

Pete interpreta la diàtesi come categoria che "esprime relazione del subietto e dell'obietto dell'azione con il soggetto della frase" (Pete 1991a:100; [trad. nostra: L. T.]).

L'analisi di Małecka attesta molto bene il fatto che - comunque stiano le cose a proposito della sostanza di definizione della diàtesi - la categoria della diàtesi basata sull'opposizione «attivo ↔ passivo» è una categoria "ibrida" nel senso che ha molto a che fare - oltre che con la sfera della riflessività/non-riflessività - anche con la ca­tegoria della transitività/intransitività.

Un approccio tale - che vuole considerare lo stato delle cose in un tale aspetto, un aspetto che nella descrizione di un fenomeno linguistico tiene conto dell'inter­dipendenza degli elementi costitutivi non solo di una singola categoria, rappresen­tante il punto cruciale del fenomeno stesso, ma coinvolge anche i componenti di categorie che le sono vicine nello svolgere funzioni simili nell'apparato - delinea già in germe i contorni di una categoria più estesa chiamata nel nostro caso direzionalità o campo semantico - funzionale della diàtesi.

Sempre tanto per mettere in chiaro la terminologia, si vuole sottolineare che la diàtesi come categoria morfologica del verbo, non va identificata automaticamente con il suo campo seman­tico: la categoria morfologica ne rappresenta soltanto la parte nucleare. Nelle grammatiche scolastiche la diàtesi viene esaminata in generale come categoria grammaticale del verbo, nel suo isolamento, badando solo ai suoi componenti "diretti" (diàtesi attiva, passiva, riflessiva, pronominale, fattitiva, potenziale [in un­gherese] e diàtesi asoggettiva o senza soggetto [in russo]); (cfr.: Dardano-Trifone 1991: 193-196; Pete 1991a: 100-108).

Secondo Bondarko "per il momento la risposta rimane aperta circa alla que­stione su dove vada tracciata la linea di confine tra la diàtesi e gli altri - periferici - elementi del campo semantico della diàtesi" (Bondarko op.cit: 55-56 [trad. nostra: L. T.]). Riteniamo, questa osservazione dello studioso valga pure per l'italiano. La definizione del campo della diàtesi proposta dal linguista citato dice che "la categoria semantico-funzionale della diàtesi abbraccia mezzi veicolanti l'interpretazione semantica linguistica della relazione dell'azione con il subietto e l'obietto" (ibid.: 55). Nel trattare la diàtesi si sottolinea la corrispondenza delle categorie sintattiche di soggetto, predicato e oggetto stabilita dalla stessa categoria, alle categorie logiche universali di soggetto (agente), predicato e oggetto. Il soggetto può coincidere con l'agente (diàtesi attiva), esso può differire dall'agente (diàtesi passiva), può coincidere con l'oggetto (diàtesi riflessiva) e, esso può far compiere l'azione a un altro soggetto (diàtesi fattitiva); (cfr.: Serianni 1988:326; Pete 1991a: 76-89).

Attorno dunque a una tale triplicità strutturale (soggetto, predicato, oggetto) si organizza il campo semantico che deve riguardare i mezzi che concorrono ad espri­mere una certa "direzione" dell'azione o la sua "non-direzione" (quando l'azione in questione rimane "chiusa" nella sfera del soggetto). Applicando i suggerimenti teorici di Bondarko (op. cit.: 55-56), nel campo semantico della categoria di cui par­liamo si possono distinguere i seguenti componenti: a) opposizione nucleare morfologo - sintattica di «attivo/passivo»; b) opposizione lessico - morfologica di «riflessi­vo/non riflessivo»; e) opposizione lessico -sintattica di «transitivo/intransitivo». Vedremo in seguito che l'opposizione «attivo/passivo» non per niente pretende di collocarsi al centro della categoria e assumere in tal modo il ruolo del nucleo: essa (l'opposi­zione) sta in rapporti sintattici organici con le altre due opposizioni, mentre queste ultime pure interagiscono strettamente sul piano soprattutto sintattico.

Quanto ai rapporti reciproci, all'interno della categoria o campo esaminato, si devono tener presenti notevoli restrizioni di carattere lessicale, morfologico e sin­tattico relative piuttosto alle valenze degli elementi costitutivi. Le restrizioni si ma­nifestano in ciò che segue. La possibilità della trasformazione «attivo ↔ passivo» è limitata ai verbi transitivi, cioè ad una struttura sintattica frasale "tripolare" che comprende soggetto, predicato e oggetto (visto che i verbi transitivi dispongono di una posizione argomentale di oggetto diretto come secondo argomento, una posizio­ne che - in base alla teoria delle valenze di Tesniére - deve essere normalmente saturata dall'oggetto), vale a dire i componenti obbligatori della «catenella minima o nucleare» sintattica (termine di Martynov 1982:15; [trad. dal russo nostra: L. T.]). Il carattere morfologo - sintattico dell'opposizione si fonda sulla determinazione formale dell'attivo nei confronti del passivo e sullo scambio delle funzioni sintattiche dei componenti in seguito alla trasformazione passivante, che avviene secondo i principi della grammatica trasformazionale - com'è noto - in modo tale che il verbo attivo (il predicato) assume la forma del predicato nominale comprendente un ausiliare e un participio (che morfologicamente si comporta come un aggettivo); l'oggetto diretto della costruzione attiva diventa soggetto sintattico e occupa la posizione argomentale del soggetto (a sinistra del verbo) liberata - in seguito alla trasformazione - dal soggetto dell'attivo. Il soggetto dell'attivo, abbandonando la sua posizione originale, si colloca a destra del predicato passivo. Dal momento, che la passivizzazione "cancella" la posizione dell'oggetto diretto (il participio non dispone della posizione argomentale dell'oggetto all'accusativo), l'ex-soggetto (quello dell'attivo) - non potendo passare al posto dell'oggetto diretto - nella costruzione passiva assume una forma preposizionale (introdotta in italiano dalla preposizione da) e viene dislocato a destra del predicato, a una posizione che nella struttura passiva italiana è riservata normalmente al complemento di agente o di causa efficiente (cfr.. Antal 1990: 42-62; Tóth 2010: 128-129).

Quanto alla trasformabilità dell'attivo in passivo - legata esclusivamente ai verbi tran­sitivi -bisogna osservare che la transitività verbale è una condizione sine qua non della passivizzazione, ma esistono pure certe restrizioni semantiche che delimitano l'ordine di verbi transitivi che siano atti a partecipare alla trasformazione. G. Salvi e L. Vanelli accennano al fatto che "la costruzione passiva non è possibile con quei verbi transitivi il cui soggetto non abbia il ruolo di AGENTE o di ESPERIENTE, come avere (il cui soggetto ha il ruolo di TERMINE), contenere (il cui soggetto indica un LUOGO), concernere, riguardare, preoccupare, sorprendere (con i quali il soggetto ha il ruolo di OGGETTO)" (Salvi-Vanelli 1992: 34).

Riteniamo, non sarà fuori luogo a questo punto se ci soffermeremo tra parentesi sui ruoli semantici del soggetto come argomento di primo ordine della frase. I ruoli semantici che sono determinati dai singoli verbi si selezionano lungo i criteri di animatezza dell'ente che svolge il ruolo e di controllo che l'ente esercita sull'evento descritto dalla frase. Sulla scia di Salvi, Vanelli e Kiefer, distingueremo le seguenti funzioni semantiche del soggetto:

1. AGENTE. Le proprietà dell'Agente: è animato e controlla l'evento. All'esprimere di questo ruolo semantico del soggetto partecipano i cosiddetti verbi "agentivi" che trasmettono azioni compiute dal soggetto volontariamente e coscientemente, per es.: Giovanni guarda Maria.

2. ESPERIENTE. Le proprietà dell'Esperiente: è animato, ma non controlla l'azione. Per es.: Giovanni vede Maria.

3. TERMINE/POSSESSORE. Le proprietà del Termine: è animato, ma il suo controllo sull'evento non ha rilevanza. Per es.: Giovanni ha due sorelle. Questa casa ha due porte (per analogia con Giovanni ha due sorelle, anche se il soggetto questa casa non è animato).

4. OGGETTO. Le proprietà dell'Oggetto: non controlla l'azione e la sua animatezza non ha importanza. All'espressione dell'oggetto partecipano in genere verbi non-agentivi, per es.: Giovanni è caduto dalla bicicletta. La mela è caduta dal melo.

5. LUOGO. Le proprietà del Luogo: non è animato, non controlla l'evento. Per es.: Questo libro contiene molte illustrazioni a colori.

6. STRUMENTO. Le proprietà dello Strumento: non è animato, non controlla l'evento. Per es.: Questa chiave non apre questa porta.

7. FORZA (NATURALE). Le proprietà della Forza: non controlla l'azione, generalmente non è animato. Per es.: Il vento furioso ha sradicato molti alberi del giardino. (Cfr.: Salvi-Vanelli 1992: 9, 2004: 28-29; Kiefer 1992: 902).

Sempre in margine alla trasformazione passiva vogliamo fare un'osservazione tra parentesi. Se il passivo è possibile solo con quei verbi transitivi il cui soggetto svolge la funzione di Agente o di Esperiente e, se, diciamo, l'Agente è caratterizzato dal fatto di essere animato, allora ne verrebbe di conseguenza che con un verbo che ha come soggetto un nome che designi un essere inanimato, non è possibile formare la costruzione passiva. Ciò significa che la frase-campione citata sopra Il vento furiosoha sradicato molti alberi del giardino non avrebbe una corrispondente forma passiva, e il cosiddetto complemento di causa efficiente (che appare al passivo quando il soggetto del corrispondente attivo designa un essere non animato) come termine tecnico perderebbe senso. Ma, come sappiamo, le frasi del tipo La casa fu distrutta da una frana sono, naturalmente, del tutto normali (cfr.: Salvi-Vanelli 1992: 17). Per distinguere i casi con l'Agente animato da quelli con l'essere inanimato, consideriamo opportuno, come sopra, assumere nel complesso il termine tecnico di Forza assegnandogli un ruolo distinto da quello dell'Agente appunto in base all'animatezza / inanimatezza dell'ente.

Una volta toccate le restrizioni riguardanti la passivizzazione, si vuole mettere in risalto un altro criterio sintattico importante, che nelle grammatiche - salvo qualche caso - sembra essere un po' tralasciato, ma sul quale gli autori citati sopra richiamano l'attenzione. "Se l'oggetto diretto del verbo transitivo è costituito da una proposizione infinitiva, il passivo è possibile solo se il controllore (...) del soggetto non espresso dell'infinitiva è l'oggetto indiretto [7a], ma non se è il soggetto [7b] (cioè, è l'oggetto indiretto che rimanda al soggetto non espresso che compie l'azione espressa dall'infinito - osservazione dell'autore: L. T.): [7] a. Hanno ordinato a Piero di partire / A Piero è stato ordinato di partire; b. Piero ha preferito partire / *È stato preferito partire (da Piero)" (ibid.: 35).

Osserviamo solo per curiosità che negli esempi sopraindicati abbiamo a che fare con due tipi diversi dell'infinito. La differenza sta nel fatto che in [7a] l'Agente che compie l'azione espressa dall'infinito differisce dall'Agente della reggente ed è espresso con un oggetto indiretto ('qualcuno ha ordinato a una [altra] persona di partire'), mentre in [7b] l'azione della reggente e l'azione dell'infinito si riferisce alla stessa persona, al soggetto. Nella grammatica russa i due tipi dell'infinito sono chiamati rispettivamente infinito oggettivo (объектный инфинитив) e infinito soggettivo (субъектный инфинитив); (cfr.: Tóth 2010: 133). Quindi, applicando questa distinzione alla trasformazione «attivo→passivo» risulta che l'infinito oggettivo rende possibile la passivizzazione, mentre quello soggettivo la rifiuta.

Per quanto riguarda i verbi riflessivi, o meglio, i costrutti riflessivi (o forme riflessive) - marcati dai monemi morfologici della riflessività (pronomi personali atoni) - essi non sono capaci di collegarsi con il complemento oggetto diretto, pos­sono perciò, in un tale senso, essere considerati intransitivi. Il verbo riflessivo viene qua­lificato da Serianni come "tipo fondamentale di verbo pronominale" (Serianni op.cit.: 328). Nella linguistica italiana si distinguono verbi riflessivi diretti (con i quali soggetto e oggetto coincidono: io mi lavo); riflessivi reciproci (quando due o più soggetti al tempo stesso compiono e scambievolmente subiscono l'azione: Gianni e Piero si picchiano); riflessivi indiretti (chiamati anche apparenti o transitivi pronominali, con i quali l'azione verbale si svolge a beneficio del soggetto, nell'interesse o per l'iniziativa del soggetto, il pronome atono esercita la funzione di un complemento indiretto (detto termine): mi domando se ho sbagliato [domando a me stesso], mi lavo le mani [lavo le mani a me stesso]; intransitivi pronominali (detti anche riflessivi intransitivi, con cui il pronome atono rappresenta un componente formale obbligatorio o facoltativo senza alcun valore riflessivo): mi pento di ciò che ho fatto; mi ricordo di quel tempo (con la possibilità di ricordo quel tempo); cfr.: ibid.: 328 - 329).

Come mostrano i fatti, il comportamento del pronome atono in diversi tipi di riflessivo è diverso, il suo peso semantico "oscilla" (tra «massimo» e «minimo») a seconda della carica lessicale del complesso (l'opposizione «riflessivo ↔ non riflessivo» è non per niente di natura lessico-morfologica). Nel caso del riflessivo diretto (mi lavo) il valore della riflessività emerge in superficie "direttamente", «al massimo grado», mentre con i verbi intransitivi pronominali (mi pento, mi ricordo ecc.) il valore riflessivo non ha una rilevanza semantica distintiva: il grado di marcatezza del verbo dal sema di riflessività, è praticamente, uguale allo zero.

Riteniamo di non allontanarci troppo dalla realtà, ammettendo che quanto più forte sia il saldarsi tra loro di Agente e azione (quanto più l'azione verbale sia "chiusa" nella sfera del soggetto), tanto più si attenui il valore riflessivo del costrutto e viceversa: quanto più sia possibile "staccare" (separare) l'azione dal suo Agente, tanto più la riflessività si faccia valere. Questa gradualità si rispecchia anche al livello della forma: al massimo grado del manifestarsi del valore riflessivo la riflessività si esprime piuttosto in modo "analitico" nel senso che i componenti della costruzione riflessiva (pronome + verbo) dispongono di una maggiore autonomia (il che vuol dire che tra pronome e verbo esiste un "confine semantico", per così dire, "discernibile"); ciò significa che il verbo concorrente ad esprimere il contenuto riflessivo insieme al pronome, può reggersi anche da solo (lavarsi; lavare i piatti). Al minimo grado (allo "zero") dell'espressione del valore riflessivo (nel caso di un verbo del tipo vergognarsi) la saldatura semantica dei costituenti è talmente forte che il "confine" tra i costituenti menzionati sopra de facto non ha nessuna rilevanza dal punto di vista semantico (vedremo in seguito, dal punto di vista sintattico, però, il suo ruolo risulta importantissimo).

Quello che dalla nostra posizione può essere aggiunto come contributo al quadro complesso del fenomeno di cui stiamo parlando riguarda prevalentemente il lato sintattico della questione connesso direttamente con le valenze dei costituenti della costruzione (il termine valenza viene usato in questa sede secondo l'analogia con il termine relativo alla chimica e non in senso di significato).

Come si è visto, tutti i tipi del riflessivo vero e proprio (indipendentemente dalla "forza" della riflessività) sono caratterizzati dalla presenza del pronome atono personale all'accusativo: mi, ti, si, ci, vi, si (lasciamo da parte ora il riflessivo "apparente" che in realtà non è un vero riflessivo). Questo elemento (il pronome) oltre a marcare il costrutto con il contenuto riflessivo fa diventare intransitivo il verbo transitivo (nel caso di un verbo che si usa anche da solo, senza il pronome). Nel caso invece, in cui il verbo non si usa "autonomamente" (come forma, non esiste) la metamorfosi transitivo→intransitivo, evidentemente, non funziona; tali verbi sono verbi intransitivi assoluti (non possono essere usati in senso transitivo). Con questi verbi, quindi, l'elemento pronominale non fa altro che "proiettare" la loro valenza sintattica nella frase: non permette al verbo (di cui fa parte) di collegarsi con l'accusativo del nome, per esempio: pentirsi [di] accorgersi [di], vergognarsi [di] ecc. A proposito di queste forme Serianni scrive che in esse "[. .] il pronome atono non ha valore riflessivo, né diretto né indiretto né reciproco, ma rappresenta una semplice componente formale del verbo, obbligatoria (come in «mi pento», che non ammette la variante *pento) o facoltativa («mi ricordo», ma anche «ricordo»)" (Serianni op.cit.: 328).

Per quello che riguarda questa "semplice componente formale", però, non si può ignorare il fatto che - come abbiamo già osservato - gli elementi pronominali in costruzioni riflessive (indipendentemente dal tipo del riflessivo) hanno una "mis­sione" sintattica comune: saturano la posizione argomentale dell'oggetto diretto, il che esclude per la costruzione la possibilità di combinarsi con un oggetto diretto diverso dal pronome personale. Va notato a questo punto tra parentesi che nelle costruzioni con riflessivi indiretti (per es. :mi lavo le mani) il pronome svolge la funzione del complemento di termine, usato quindi al dativo, e così la posizione dell'oggetto diretto - dato il verbo transitivo - è riservata a un elemento all'accusativo, cfr.. mi mangio una mela; mi lavo i capelli, ecc.

Una riprova teorica convincente dell'importante funzione sintattica della "semplice componente formale" (del pronome) può essere il complesso verbale fattitivo in cui il clitico riflessivo si alterna con un clitico della stessa posizione sintattica, vale a dire, con un clitico accusativo: Farò in modo che si penta - Lo farò pentire (cfr.: Salvi -Vanelli op. cit.: 137).

Riassumendo ciò che si è detto nei paragrafi precedenti, possiamo dire che nelle costruzioni riflessive con pronome personale l'elemento pronominale sul piano semantico serve a esprimere i diversi "gradi" del valore riflessivo (i diversi gradi della "chiusura" dell'azione nella sfera dell'Agente), a partire dalla forma del tipo mi lavo fino alla forma del tipo mi pento. Sul piano sintattico invece il pronome clitico occupa in modo esplicito, la posizione argomentale dell'oggetto diretto, restringendo in tal modo le possibili valenze sintattiche del costrutto. Il ra­gionamento esplicato nello studio di Małecka e basato sulle spiegazioni teoriche di Sabatini - secondo le quali nei verbi di forma pronominale "[. .] il pro­nome atono non svolge alcuna funzione sintattica, ma costituisce soltanto una marca morfologica (obbligatoria o facoltativa)"- quindi, magari dal nostro punto di vista, richiederebbe forse di essere un po' rivalutato (Małecka op.cit.: 61).

Nel tener presente la riflessività ↔ non-riflessività come sfera della categoria semantico- funzionale della diàtesi, va accentuato che si tratta soltanto dell'espressione di "valenze generali" dei membri dell'opposizione. In altri termini, come si esprime "la chiusura dell'azione nella sfera dell'Agente, cioè l'intransitività, - la mancanza della data marca semantica costante" (Bondarko op.cit.: 56 [trad. nostra: L. T.]). Nel caso invece, delle classi lessico - grammaticali della riflessività (riflessivi diretti, reciproci, ecc.) si ha a che fare con la periferia del campo della diàtesi (ibid).

La terza opposizione che farà parte del campo descritto è costituita da verbi transitivi ↔ intransitivi. Osserviamo solo per buona regola, che si dicono transitivi i verbi che sono caratterizzati dal fatto di essere capaci di collegarsi all'accusativo di un com­plemento oggetto, cioè quelli aventi la posizione argomentale dell'oggetto diretto, a destra del verbo. Tutti gli altri verbi sono intransitivi (prescindiamo ora da verbi cosiddetti transitivi indiretti il cui status è ancora discusso; cfr.: Sensini op. cit.: 222).

Se consideriamo i verbi riflessivi o, per meglio dire, le costruzioni riflessive (inten­diamo le forme analitiche composte di verbo e di pronome) come portatrici della marca di intransitività nel senso che il complesso riflessivo non può ulteriormente espanso con un oggetto all'accusativo diverso dall'elemento che occupa la posizione dell'oggetto diretto all'interno del complesso riflessivo (dal momento che il com­plesso riflessivo ab ovo comprende l'elemento occupante la posizione dell'oggetto diretto), allora risulta evidente che i verbi non - riflessivi restano non marcati dal punto di vista della transitività / intransitività. Cioè, nel caso di tali verbi (non-riflessivi) la relazione del verbo con la marca di transitività / intransitività va precisata sul piano lessico - sintattico; la domanda è questa: il verbo dispone o meno della posizione argomentale dell'oggetto diretto. Le opposizioni «riflessivo ↔ non-riflessivo» e «transitivo ↔intransitivo» completandosi così l'una con l'altra, costituiscono all'interno del campo della diàtesi il sottocampo della «transitività ↔ intransitività» (cfr.. Bondarko op.cit.: 56).